LA PRIMA VOLTA CON BRUCE
Write a commentQuell'inverno del 1984, a quattordici anni appena compiuti, avevo capito tutto della vita. Avevo preso la decisione finale: terminata la quinta ginnasiale, avrei salutato tutta la famiglia con una bella lettera che mi accingevo a scrivere con mesi di anticipo, per renderla degna della memoria dei posteri, e mi sarei imbarcata su un mercantile diretto nel MONDO.
La decisione era presa, il destino si dipanava davanti ai miei occhi come un film d'azione: traversate interminabili da un capo all'altro del globo, avventure, scazzottate sul ponte della nave con marinai e contrabbandieri...insomma, una vita degna di essere vissuta!
I miei genitori avrebbero capito finalmente tutto e avrebbero implorato il mio ritorno, ma io sarei stata inflessibile: "I know, I have to go", come cantava Cat Steven dallo stereo a palla nella cameretta, dove ero rinchiusa da una settimana, per un'ingiusta punizione. Avevo seguito la mia amica del cuore, Rosanna, in una corsa in auto. Il dettaglio, insignificante, della guida senza patente, aveva allarmato i miei genitori retrogradi tanto da convincerli a una pena definitiva: alle nove a letto, senza fare storie!
E cosi, aspettando il giorno della partenza in cui avrei spiegato le ali verso la libertà e tutte le manfrine da liceo classico, me ne stavo ad ascoltare musica a tutto volume.
Fu un pomeriggio di pioggia battente che, girando la manopola della radio per trovare una stazione decente, udii una voce maschile: "we are the world...We are the children".
Quella voce mi entrò da qualche parte, insinuandosi con prepotenza nelle poppe. Sì, nelle poppe, che fino al momento prima avevo considerato due odiosi ammennicoli. D'un tratto scoprivo che le poppe avevano una vita propria, una loro ragion d'essere e soprattutto che andavano pazze per la voce di Bruce Springsteen. Non avevo il coraggio di confessarlo, ero stupita, folgorata dalle sensazioni che si impadronivano dei miei quarantacinque chili, quarta di reggiseno. Avevo sempre negato di portare la quarta, consideravo la dismisura delle poppe il torto più grave che l'adolescenza mi avesse fatto; le nascondevo alle battute stupide degli amici - "tettona, perona" - con reggiseni crisscross incrociomagico, uno strumento di tortura medioevale che compravo all'emporio Diamante, l'unico negozio di Tower Beach che vendeva tutto, dalle mutande ai quaderni.
Fino all'incontro con la voce del Boss, ero innamorata di capitan Harlock, il mio eroe dei cartoni. Ma quella voce maschia, rude, da meccanico del New Yersey, mi aveva strappata all'infanzia, catapultandomi nella tempesta dell'adolescenza. Non ne conoscevo neanche le sembianze, non c'era MTV, non c'era niente.
Una mattina attesi con impazienza l'apertura del negozio di dischi, falsificando la firma di mamma per entrare a scuola alla seconda ora. Il proprietario, una pesona simpatica ed esperto di musica, come i vecchi proprietari dei negozi di dischi, mi chiese cosa facessi di buon mattino dinanzi al negozio. Con voce tremante e impaurita dall'idea che potesse accorgersi dell'involontario sussulto delle poppe, chiesi un disco di Bruce Springsteen. Mi guardò compiaciuto: "ottima scelta per una ragazzina sveglia come te. A proposito, non divresti essere a scuola?" Glissai sulla domanda con un sorrisetto e strinsi al petto il vinile del desiderio: Born in the USA. Fui colpita da una folgore, mi innamorai seduta stante della schiena di Bruce: era l'uomo della mia vita! A scuola, ricordo come fosse ieri, fremevo nel banco, in attesa di ritornare a casa per ascoltare Bruce. Impaziente, bruciante di desiderio, fui colta alla sprovvista dalla voce dell'insegnante di matematica: "Bifulco, alla lavagna!" La matematica era una materia esclusa dai miei intenti scolastici, attesi invano i suggeriment, rimasi a contemplare l'equazione per un tempo infinito, poi gettai la spugna, riposi il gesso e con la testa bassa mi avviai al banco.
A casa, non rivolsi la parola a nessuno, mia madre iniziò un sermone sul disagio adolescenziale, sui rischi delle droghe e sull'AIDS. Mio padre sintentizzò il concetto, estraendo il succo delle analisi compiute da mamma: "Ti spacco la testa!" Amavo quel suo fare brusco ma chiaro, che non ammetteva repliche. Dire le cose senza ciance, dirette, guardandoti negli occhi.
Mi ritarai nella stanzetta, scartocciai il pacco del negozio, sentii il fruscio della puntina sul vinile, che sembrò un sussurro, poi cominciò il concerto. Saltavo come una pazza da una parte all'altra della camera, ballavo come presa da un fuoco sacro. Era il rock che entrava nella mia vita, facendomi sentire ogni atomo del corpo, mentre le poppe gioivano. Esisteva un legame stretto tra quella cosa misteriosa, chiamata sesso, e il rock.
Ballai per ore, mettendo e rimmettendo lo stesso disco. Ora la vita era chiara, i dubbi svaniti: sarei diventata una chitarrista rock, avrei suonato con Bruce! Mi accinsi a riscrivere la lettera ai miei genitori, sarebbe stata una lettera da antologia e cominciava cosi: non c'è altro che il rock!
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